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28 anni dopo, la recensione: l'orrore muta e non scompare

Sono passati (solo) diciotto anni, ma il nuovo film della saga cinematografica di 28 giorni dopo (2002) è finalmente arrivato: 28 anni dopo, terzo lungometraggio della saga che racconta della diffusione dell'epidemia di virus della rabbia nel Regno Unito, sequel di 28 settimane dopo (2007), e primo di una nuova (si spera) trilogia, sbarca nelle sale italiane il 18 giugno, segnando, dopo ventitré anni, la reunion del mitico duo Alex Garland e Danny Boyle, rispettivamente sceneggiatore e regista del primo capitolo, e il ritorno nei loro rispettivi ruoli. Questo nuova pellicola ci avrà convinto?


28 anni dopo: di cosa parla?

Un frame di 28 anni dopo

Sono passati 28 anni da quando il virus della rabbia è fuoriuscito da un laboratorio di armi biologiche e si è diffuso per tutto il Regno Unito, che da allora è segregato dal resto del mondo in una quarantena forzata. In mezzo agli infetti, un gruppo di sopravvissuti è riuscito a sopravvivere a Lindisfarnes, una piccola isola collegata alla terraferma da un'unica strada rialzata e protetta giornalmente dalla marea, tentando di portare avanti quel che resta della società.


Quando un padre, Jamie (Aaron Taylor-Johnson), e suo figlio, Spike (Alfie Williams), lasciano l'isola per avventurarsi in missione sulla terraferma, scopriranno nuove e sconvolgenti rivelazioni riguardanti gli infetti e la mutazione del virus.


Prospettive inedite per un esempio di grande cinema

Un infetto in una scena del film

Questa incredibile saga, che ad inizio millennio raccontava un paese sconvolto da una pandemia e le immediate conseguenze di essa sui sopravvissuti (ricorda forse qualcosa?), giunta al terzo capitolo, nella cui finzione temporale sono passati 28 anni, racconta di una società che, fatica dopo fatica, ha imparato a convivere con il virus e con gli infetti che esso ha prodotto, descrivendo i diversi spiriti di adattamento dell'uomo in questo nuovo modus vivendi tutto britannico.


Da un lato c'è chi ha ricreato una perfetta copia della società del passato, quella della vecchia Inghilterra, quella della Brexit, in cui i maschi uccidono e e le femmine sono relegate in cucina. Dall'altra chi vive direttamente in mezzo agli infetti, quasi selvaggiamente, ma con uno spirito ben più umano e compassionevole.


Questo contrasto è evidente anche nelle tempistiche. Il film infatti, è perfettamente diviso in due parti, in un misto di azione e di orrore, ma anche di riflessione su tematiche esistenziali. Da una parte la lotta sanguinosa di un padre e un figlio che combattono contro un vero e proprio inferno sulla terra (un miracolo di tecnica e di tensione perfettamente costruito); dall'altra quella di una madre, figura centrale nella seconda parte del film, e dello stesso figlio, che intraprendono un viaggio in cerca della salvezza in nome dell'amore.


Una prima parte più cruda opposta ad una seconda più tenue, più dolce, anche se non scevra di pericoli, e più incline alla riflessione. Due anime così contrapposte nel medesimo film, regalando una prospettiva inedita nella saga che mai abbiamo visto finora.


La pellicola, infatti, si sofferma su svariate tematiche: dall'evoluzione del virus, e per contraltare l'evoluzione dell'uomo stesso, infetto e non, al concetto di mostro (chi sono i veri mostri, gli infetti o gli esseri umani?), fino agli importanti temi di famiglia, ricordo, amore e morte, emersi grazie al personaggio del Dottor. Kelson (Ralph Fiennes).


Memento mori, Memento amoris, queste le due massime che il film vuole lasciare impresse. Massime vecchie come il mondo, ma sempre attuali, che ci ricordano quanto sia inevitabile sia l'amare che il morire e che la vita, soprattutto in un contesto pandemico così violento come quello narrato nel film, non può prescindere da essi e dal loro indispensabile ricordo.


28 anni dopo: la tecnologia non manca di evolversi

Ralph Fiennes in una scena del film

Non si può non dedicare qualche parola alla regia coinvolgente di questo film. Il primo film della saga era realizzato in digitale, e la tecnologia, come il virus, si è evoluta nel tempo, e per questo nuovo capitolo sono stati utilizzati diversi mezzi per affrontare un nuovo metodo di riprese, per un'altrettanto nuova e significativa sfida nel contemporaneo. Stesso discorso in realtà vale per il nuovo film con Brad Pitt, al cinema adesso.


28 anni dopo, come il primo capitolo, è anch'esso chiaramente digitale, girato con svariati iPhone, macchine da presa leggere e numerosi droni, tutto intenzionalmente pensato per approdare a qualcosa di diverso ed innovativo, qualcosa che il metodo tradizionale non avrebbe mai potuto garantire per raggiungere tecnicismi e sensazioni di tale incredibile portata.


Le angolazioni di ripresa, infatti, sono sempre inusitate, impostate da punti di vista inediti e coraggiosi, producendo effetti a volte frammentari a volte incredibilmente fluidi, segno che il modo di dirigere e di riprendere è cambiato e cambierà ancora nel tempo e che il cinema, come la vita stessa, come il virus, evolve sempre, pronto a sorprendere e a condurci verso ulteriori lidi.


In definitiva, 28 anni dopo è un film d'eccellenza sia visiva che di scrittura (come il nuovo film di Anderson), che rafforza il già grande valore di questa sensazionale saga cinematografica, offrendo punti di vista completamente nuovi sul virus e portando a inesplorati atti riflessivi sul valore del ricordo, della morte e dell'amore, temi da secoli indissolubilmente legati.


Un altro grande esempio di cinema attuale, per un Danny Boyle in formissima che confezionando un film anticonformista rammenta come la settima arte sia da sempre una commistione di tecniche di regia e montaggio con cui si può e si deve giocare e sperimentare, oltreché eterno mezzo per raccontare la realtà politica e sociale in cui viviamo e vivremo. Correte a vedere 28 anni dopo!

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Marcello! è una testata giornalistica dedicata ai veri cinefili. A tutti coloro che amano il buio della sala cinematografica, l'odore dei pop-corn e la magia del grande schermo. Insomma, a tutti coloro che non riuscirebbero a vivere senza la settima arte.   

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