Il paradiso probabilmente di Elia Suleiman. La recensione: un film unico
- Marcello

- 25 mag 2022
- Tempo di lettura: 2 min
Il nuovo film di Elia Suleiman arriva dopo 10 anni di silenzio, ed è un film sulla Palestina e sui Palestinesi. Ma se vi aspettate muri, posti di blocco, lancio di pietre, non è così.
Il suo è uno sguardo sulla vita e sulla gente del suo paese; uno sguardo che non ha bisogno di commenti, che si pone nella prospettiva di capire con gli occhi, più che spiegare con le parole. E siccome in questi anni il regista ha molto viaggiato (in parte anche per cercare i produttori del suo film) , quello sguardo parte da Nazareth, passa da Parigi e arriva a New York.
Elia Suleiman è il protagonista silenzioso. Dirà una sola battuta in tutto il film, quando gli viene chiesto da un tassista da dove venga. “Nazareth”, dirà, “sono Palestinese.” Niente altro. Il resto è fatto di ciò che vede; o meglio, ciò che lo ha colpito dei paesi che ha visitato.
Ne nasce un taccuino di viaggio fatto di immagini, un fumetto di carattere antropologico. Perchè quello che gli interessa è l’uomo, nella società in cui vive.
E così in Palestina ci sono i vicini che si prendono cura del tuo albero di limone, ma anche i poliziotti che taglieggiano poveri commercianti e lasciano correre le violenze e il degrado. Vecchi che ti raccontano antiche storie, e soldati israeliani in auto che si provano occhiali da sole mentre trasportano una prigioniera bendata.

In una classica struttura in tre atti, il secondo è dedicato a Parigi, una overdose di modelle in giro per la città, di poliziotti in monopattino, assistenti sociali preparati ed efficienti; ma anche di immigrati che fanno i lavori più umili e di benestanti parigini che si battono per una sedia libera al parco.
A New York, infine, sono tutti armati. Ma l’attenzione per la sicurezza è concentrata esclusivamente nelle procedure aeroportuali.
L’unica riflessione sul Palestinese lontano da casa, la farà un suo amico in un bar di NY. “Tutti bevono per dimenticare, i Palestinesi bevono per ricordare”.
E quindi si torna a casa, ai ritrovati gesti antichissimi, come portare l’acqua nei vasi. Ma poi si finisce in discoteca, dove i ragazzi non sembrano prestare attenzione alle sue riflessioni. Che, appunto, sono solo sue.
Non è un film facile. Le scene, montate “per coincidenza”, senza uno sviluppo della storia, sono tutte in soggettiva: un volto che esprime spesso curiosità, a volte sconcerto, altre timore o imbarazzo. La scelta di rinunciare al plot mette a dura prova l’attenzione dello spettatore, così come la quasi totale assenza di dialoghi. Ma è soprattutto l’onnipresenza della sua faccia alla Tati ad appesantire un’opera che avrebbe tutto per essere leggera. Campo della faccia per la soggettiva; controcampo dell’azione; di nuovo campo della faccia per il silenzioso commento . Nessuno può mettere in dubbio che sia il tuo sguardo, Suleiman.
Ed è uno sguardo da grande regista, immagini di Parigi deserta indimenticabili, così come quelle dei polverosi oliveti di Nazareth. Meno convincente, e forse troppo frettolosa, la visione New York. Si vede che non ha colpito abbastanza la sua immaginazione.
Resta un film unico, nel panorama attuale. Un’opera da rispettare totalmente per la purezza dell’impegno intellettuale. E che lancia un sasso nello stagno della nostra mente; abituata, forse troppo, a storie stereotipate.












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