Presence, la recensione: quando il fantasma nella stanza sei tu
- Tommaso Di Pierro
- 22 lug
- Tempo di lettura: 3 min
Passano gli anni, il cinema evolve e si evolverà ancora, ma una cosa è certa: Steven Soderbergh ne sarà pienamente partecipe e non si fermerà mai, soprattutto dopo il suo ultimo film: Presence. Sperimentale, instancabile, attivissimo, sarebbero tanti gli aggettivi da attribuire a questo straordinario regista, a cui trent'anni di carriera e oltre non sono bastati per fiaccare il suo estro creativo e la sua voglia di mettersi in gioco, sia tecnologicamente, da bravo artigiano del cinema qual è, che creativamente.
Ora, giunto al suo trentacinquesimo film, il regista americano, sperimentatore di qualsivoglia genere cinematografico, torna nelle sale il 24 luglio con l'horror Presence, il secondo della sua carriera dopo l'ottimo Unsane (2018), per dimostrare ancora una volta al suo pubblico che nessuno tipo di film può essergli precluso. Avrà fatto centro anche stavolta?
Di cosa parla Presence?

La famiglia Payne, composta dalla madre Rebekah, dal padre Chris e dai figli Tyler e Chloe, si trasferisce in una nuova casa dopo un evento traumatico che ha sconvolto la vita di quest'ultima. La casa è spaziosa e bellissima, ma qualcosa però non torna e sembra proprio che una strana e misteriosa presenza osservi silenziosamente le azioni di Chloe e di tutta la famiglia. Quando le manifestazioni si faranno sempre più insistenti e innegabili, il mistero di questa inquietante presenza si evolverà in sviluppi inaspettati.
Osserva, vedi, scopri

Un'eterna soggettiva che segue, osserva, spia e comunica. Questa è la tecnica scelta da Soderbergh per narrare i traumi, le incrinature e i dissidi di una famiglia in crisi. Uno sguardo costante e inevitabile, un grande fratello invisibile che segue in prima persona le vicende quotidiane dei personaggi narrati, oggetto di scrupolosa analisi da parte di un occhio che, come quello che fissa lo schermo, sembra lontano, ma in realtà costantemente attivo, presente ed impattante sulla realtà stessa.
Una lente che studia e indaga e che, nella concezione ideologica del film, sovverte i ruoli canonici degli horror, dove le "prede" protagoniste solitamente osservano dal loro punto di vista le conseguenze delle azioni della presenza inquietante e invisibile, che stavolta, invece, è generatrice e motore dell'azione stessa, ma dal suo punto di vista, diventando a tutti gli effetti protagonista indiscussa.
Un semplice divertissement tecnico o ancora una volta è la voglia di sperimentazione che ha reso grande il cinema di Soderbergh? Basterebbero l'uso dei grandangoli che esaltano lo spazio e la profondità della casa d'ambientazione a confermare la seconda opzione, per un film dalla tecnica raffinata nei movimenti di macchina e nella regia: lenta e inesorabile, come l'occhio che non smette di guardare e di influenzare l'ambiente che lo circonda, eppure in qualche modo tenue e dolce, sempre in attesa di rivelare qualcosa di nascosto e di sfuggente.
Un film dunque nettamente "meccanico", dove l'occhio si fonde con la camera, facendosi mezzo di osservazione e di narrazione, determinando il pieno coinvolgimento di chi guarda e agisce.
Sfuggire alle convenzioni in Presence

Sarebbe un errore ridurre Presence ad un banale film horror di fantasmi o incasellarlo in un genere di film ben preciso (come invece è successo per M3GAN 2.0). La storia, su toni basici e semplici, nasconde ben più dramma di quanto si credi, e l'orrore non si respira tanto attraverso le conseguenze di un azione mistica o sovrannaturale, quanto attraverso impalpabili sensazioni e presentimenti, determinando una grande ambiguità di appartenenza.
Questa, però, è in fondo la forza di Presence, un film che sfugge alle regole convenzionali (come il recente 28 anni dopo), consegnando al pubblico solo una piccolissima parte di ciò che vuole: una storia sì di fantasmi, ma che attingendo all'ambiguità di opere come L'incubo di Hill House, da cui il regista Robert Wise trasse il celebre film Gli invasati (1963), dove il dubbio e l'incertezza regnano sovrani, consegna tutto nelle mani, o forse è meglio dire nella vista, di chi guarda e diventa consapevole che una prima occhiata non basterà a chiarire i misteri che si celano dietro questo film e che molteplici visioni saranno invece necessarie per identificarli e comprenderli ancora di più.
In definitiva, andare a vedere Presence è compiere un atto di fede verso la potenza del cinema, ben sapendo che ciò a cui si va incontro non è un'opera che un regista come Soderbergh creerebbe per un grande pubblico, ma per coloro capaci di apprezzare un determinato linguaggio filmico che va aldilà del semplice soggetto.












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